giovedì 6 giugno 2013

Arthur Schopenhauer

 Il mondo come rappresentazione
La rappresentazione ha due aspetti essenziali: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Entrambi esistono soltanto all'interno della rappresentazione, come due lati o parti di essa, tanto che non può esistere soggetto senza oggetto. L'oggetto esiste perché vi è un soggetto che lo prende in considerazione nella rappresentazione e così il soggetto prende coscienza di sé proprio tramite il suo rapportarsi con gli oggetti.
Evidenti sono, nell'impianto schopenhaueriano, le influenze e i termini kantiani anche se parzialmente reinterpretati nel significato.
Il nuovo significato della rappresentazione
La rappresentazione, infatti, non è più intesa in senso kantiano, come l'oggetto di qualsiasi atto conoscitivo, bensì per Schopenhauer è il risultato del rapporto necessario tra soggetto e oggetto. Rapporto in cui entrambi sono sullo stesso piano. Il soggetto non è prioritario rispetto all'oggetto (come per l'idealismo che risolve l'oggetto nel soggetto) né l'oggetto è prioritario rispetto al soggetto (come per il realismo in cui è la realtà materiale che informa di sé la soggettività).
In effetti la realtà del mondo esterno non è stata risolta
    • né dal realismo che presume sia la realtà a produrre nel soggetto la rappresentazione
    • né dall'idealismo che presume sia il soggetto a produrre le rappresentazioni dell'oggetto.
Ambedue le correnti filosofiche hanno errato: la prima attribuendo la relazione causale, che è valida tra gli oggetti rappresentati, a due mondi del tutto diversi tra loro per cui il materialista fa sorgere dalla materia lo spirito, senza accorgersi di operare impropriamente con il principio di causalità e l'idealista fa sorgere dallo spirito la materia utilizzando la categoria di causalità che serve solo a ordinare i fenomeni.
L'assenza di priorità dell'elemento soggettivo fa sì che le forme a priori non siano più il dato soggettivo che, secondo il pensiero kantiano, va a sommarsi a quello empirico "costituendo" l'oggetto,bensì che tali forme a priori siano già implicite, nella rappresentazione, cioè in quell'atto assolutamente primo in cui concorrono parimenti soggetto e oggetto.
Per Schopenhauer come per Kant intuizioni pure, o forme a priori, sono lo spazio, il tempo e la causalità. Spazio e tempo sono i principi di individuazione della materia, la causalità invece, vista da Schopenhauer, è l'essenza della materia, è essenzialmente attività (tant'è che in tedesco “wirklichkeit” che significa "realtà" ha la stessa radice di “wirken” che vuol dire "agire"). Siccome la materia non è altro che l'agire nello spazio e nel tempo di oggetti su altri oggetti, la materia verrà a coincidere con la causalità.
Per Schopenhauer poi l'intelletto non è più la facoltà kantiana che opera sulle rappresentazioni immediate (intuizioni) per formare i concetti (rappresentazioni di rappresentazioni) tramite le categorie, ma diviene la facoltà della causalità.
L'intelletto opera intuitivamente come la sensibilità poiché la causalità non è più una categoria (cioè una forma pura dell'intelletto) ma, come detto, si fonda sulla rappresentazione immediata della materia in quanto attività.
Il velo di Maya
Schopenhauer riprende da Kant i concetti di fenomeno e noumeno. Il fenomeno è il prodotto della nostra coscienza, esso è il mondo come ci appare, mentre il noumeno è la cosa in se, fondamento ed essenza vera del mondo. Il fenomeno materiale è dunque per Schopenhauer solo parvenza, illusione, sogno: tra noi e la vera realtà è come se vi fosse uno schermo che ce la fa vedere distorta e non come essa è veramente: il velo di Maya di cui parla la filosofia indiana, alla quale Schopenhauer spesso si rifà.
Il mondo dunque è una propria rappresentazione, una propria illusione ottica. Schopenhauer ritiene che la rappresentazione, cioè la realtà che ci si para davanti, sia nient'altro che una fotocopia mal inchiostrata, celante la vera realtà delle cose (da questa asserzione traspare l'influenza dello studio di Platone).
Per poter giungere alla realtà noumenica, quella vera, non si può quindi percorrere la strada della conoscenza razionale, visto che è relegata alla sfera della rappresentazione che in base al quadruplice principio di ragion sufficiente ci mostrerà sempre un mondo totalmente determinato.
Il mondo come volontà
Se fossimo solo esseri conoscenti, rappresentanti, non potremmo mai scoprire la cosa in sé. Ma noi siamo anche corpo, che per il soggetto conoscente non è soltanto un oggetto come gli altri ma esso è
«anche qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno e che viene designato con il nome di volontà»
La rappresentazione esterna non è solo quella rivolta alle cose esterne ma è anche quella interiore per cui noi cerchiamo di cogliere la coscienza di noi stessi, del nostro io che coincide con la rappresentazione del nostro corpo. Con l'intelletto ciascuno di noi si guarda dal di fuori: non conosce se stesso se non come una cosa tra le altre cose, come un organismo corporeo tra gli altri corpi.
Ma se ognuno di noi non fosse che un puro soggetto sensoriale, "una testa d'angelo alata senza corpo", non potremo mai uscire dai fenomeni, ma poiché siamo corpo non ci limitiamo a guardarci dal di fuori ma ci sentiamo vivere, sentiamo che il corpo ci appartiene, che è l'oggetto con cui l'io tende a identificarsi e che tutto questo genera dolore.
«Ad eccezione dell'uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza… La meraviglia filosofica … è viceversa condizionata da un più elevato sviluppo dell'intelligenza individuale: tale condizione però non è certamente l'unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l'impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio.»
L'intuizione di Schopenhauer sta nel fatto di considerare l'uomo non solo come soggetto conoscente ma anche come essere dotato di un corpo.
Tale corpo è sì per la nostra percezione, per il senso esterno, un oggetto tra gli oggetti ma è anche la sede di un senso interno che ci mostra immediatamente la nostra coincidenza con una forza, un impulso, che è la volontà.
Attraverso l'esperienza di se stessi come corpo l'uomo può giungere al noumeno, alla cosa in sé senza ricorrere alle forme a priori della conoscenza.
La volontà di vivere
Proprio attraverso il corpo scopriamo che la realtà delle cose ci concerne, siamo nel mondo come una sua parte; difatti vogliamo, desideriamo certe cose e certe altre le evitiamo, rifuggiamo il dolore e ricerchiamo il piacere. Proprio questo ci permette di squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci in noi stessi, scopriamo che la radice noumenica del nostro io è la volontà: noi siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire.
La materialità dell'io, la sua attività («l'azione del corpo non è che l'atto della volontà oggettivato») ci mostra due facce diverse:
    • una esteriore, quella che si offre alla rappresentazione per cui esso appare corpo
    • una interiore per cui esso si svela come tendenza, sforzo, brama di vivere, volontà di vivere, volontà che s'identifica con quella realtà extra fenomenica di cui parlava Kant che però egli raggiungeva attraverso la volontà morale con cui l'io conosceva se stesso come libertà spirituale.
La musica
Essenza tangibile della volontà di vivere è la musica che attraverso semplici suoni esprime la vera filosofia del mondo:
«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell'intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l'immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettività: perciò l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l'ombra, mentre essa esprime l'essenza. La musica esprime, con un linguaggio universale, l'intima essenza, in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l'esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient'altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell'essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia.»
L'esistenza di Dio 
La tradizione cristiano-giudica trova un senso alla nostra vita postulando l'esistenza di un Dio, ma secondo Schopenhauer, che Nietzsche definì «il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi tedeschi abbiamo avuto», questo Dio si dovrebbe riferire a un essere conoscente che abbia voluto creare il mondo, cioè un essere che ha elargito agli uomini come un dono un tale miserevole stato di cose.
La prova fisico-teologica kantiana dell'esistenza di un Dio architetto di un universo ordinato, apprezzata come la più intuitiva dal senso comune, viene invece contestata da Schopenhauer che la giudica non diversa dalla prova "keraunologica", che si basa sul terrore del fulmine (keraunos in greco), per la quale gli ignoranti credevano nell'esistenza di Zeus.
Un mondo così pervaso dal male potrebbe portare finalisticamente a credere nell'esistenza di un Dio concependolo come un Essere supremamente malvagio.
E se si obietta che la perfezione degli organismi viventi necessariamente deve essere riferita a un Dio perfetto creatore, Schopenhauer risponde che l'idea finalistica della perfezione appartiene all'intelletto, ma la natura di per sé non possiede il concetto di fine, essa è l'oggettivazione della volontà cieca e irrazionale: sono gli uomini che cercano di dare un senso alla loro vita finalizzandola a un essere superiore che non può esistere.
Il piacere come assenza di dolore e la noia
La volontà di vivere produce incessantemente nell'uomo bisogni che richiedono soddisfazione: desideri, che sono dunque reazione ad un senso di mancanza, di sofferenza.
Difficilmente però tutti i desideri si realizzano, e la mancata realizzazione di alcuni di essi causa un'ulteriore, più acuta sofferenza. Ma, anche quando un desiderio viene soddisfatto, il piacere che ne deriva risulta essere solo di natura negativa, soltanto, cioè, un alleviamento della sofferenza provocata da quel prepotente bisogno iniziale; bisogno che subito riappare in altra forma, pronto a pungolare con nuovi desideri l'affannata coscienza umana.
E quando pure l'uomo non viva nel bisogno fisico e nella miseria, quando nessun effimero desiderio (invidia, vanità, onore, vendetta) gli riempia i giorni e le ore, subito la noia, la più orrenda e più angosciosa di tutte le sofferenze, si abbatte su di lui:
«Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno.»
«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.»
La vita umana è quindi un alternarsi di dolore e di noia, passando per la momentanea sensazione meramente negativa del piacere.
«L'annoiato lungi dal non volere, vuole» e rimpiange la vita intensamente vissuta nella tensione. La noia è la volontà che vuole se stessa com'era. Una volontà più sofisticata ma non meno tenace e sfibrante.
Il dolore è la realtà prima, e la felicità non è che la negazione di questo positivo ontologico e antecedente cronologico, per cui la negatività della felicità sta nel fatto che sarà sempre liberazione da un desiderio, un dolore, un bisogno (sempre deficiente rispetto all'incolmabilià del desiderio).
L'illusione
Oltre alla noia un'altra figura che mantiene in movimento la volontà è l'illusione. La conoscenza nella forma della fantasia, dipingendo l'oggetto del volere come in grado di estinguere il bisogno, acutizza il desiderio, con quest'illusione. Così la conoscenza appare al servizio della volontà e l'illusione congenita al volere. Anzi è la volontà che si fa conoscenza per farsi motivare.
Il conoscere è sempre subordinato alla volontà e ogni conoscenza è interessata.
Il conoscere è volontà di conoscere: la volontà vuole conoscere e per questo si dà la conoscenza per la propria conservazione e potenziamento.
Il pessimismo
La volontà di vivere è causa di sofferenza per tutti gli esseri conoscenti (in quanto essendo volontà, pretende in continuazione, senza essere mai soddisfatta), e in special modo per l'uomo, la cui maggiore razionalità rende infinitamente più consapevole di sé e quindi più dolorosa la sua vita rispetto a quella degli altri animali (infatti a differenza di essi l'uomo sa di dover morire, e si rappresenta anche dolori passati ed ansie future).
Il suicidio
Inizialmente, Schopenhauer come mezzo di liberazione prende in esame il suicidio. In posizione anti-storica, il filosofo condanna questa pratica, perché il suicidio non è una negazione della volontà di vivere ma piuttosto una sua affermazione, poiché il suicida vuole porre fine alla propria vita, nega, ma afferma la volontà: negando la vita com'è vorrebbe una vita migliore.
Inoltre, attraverso il suicidio viene soppressa unicamente la manifestazione fenomenica, il corpo, l'oggetto della volontà, mentre come cosa in se essa continuerà ad esistere.
Il filosofo propone allora un iter salvifico, alla fine del quale, l'uomo si può liberare della voluntas, causa di dolore, e giungere alla noluntas. Le tappe per sfuggire alla volontà di vivere sono: l'arte, l'etica, l'ascesi.
Arte
La noluntas può essere momentaneamente raggiunta con l'arte che non è sottoposta al principio di ragione e ai rapporti causali necessitanti che sono alla base della conoscenza, cioè essa permette la libera visione dell'idea propria del genio «che ha l'attitudine a fare astrazione dalle cose particolari, la cui essenza si riconosce nelle relazioni e a riconoscere le idee: infine a porre se stesso quale correlato delle idee: in altre parole, ad abbandonare la natura d'individuo, per sollevarsi a soggetto puro della conoscenza.»
Nell'esperienza estetica l'artista della vera opera d'arte riesce a svincolare l'oggetto dalle condizioni che lo individualizzano (spazio, tempo e causalità) contemplandolo come universale. Sia nella ispirazione artistica che nello spettatore dell'opera d'arte infatti i soggetti dimenticano se stessi, la propria corporeità di modo che la volontà di vivere ci attraversi senza incidere sulla materialità.
«il piacere estetico consiste in gran parte nel fatto che, immergendoci nello stato di contemplazione pura, noi ci liberiamo per un istante da ogni desiderio e preoccupazione; ci spogliamo in certo qual modo di noi stessi, non siamo più l'individuo che pone l'intelligenza a servizio del volere, il soggetto correlativo alla sua cosa particolare, per la quale tutti gli oggetti divengono moti di volizione, bensì, purificati da ogni volontà, siamo il soggetto eterno della conoscenza, correlato all'Idea.»
Il fruitore dell'opera d'arte deve riuscire a negare la sua volontà diventando puro contemplatore disinteressato. Una volta terminata la breve visione artistica si ricade però nella corporeità preda della volontà di vivere.
L'etica
Nel quarto libro del Mondo si ripropone il problema di come l'uomo possa raggiungere la noluntas.
L'arte costituisce infatti solo il primo gradino del processo di negazione della volontà, resta infatti qualcosa di temporaneo e non accessibile a tutti.
L'uomo come fenomeno non è libero ma schiavo del rapporto di causalità e come noumeno è soggetto alla volontà di vivere. Egli deve prendere coscienza di questa natura negativa della realtà del mondo, della storia, della natura in cui è immerso.
Una più duratura liberazione dai mali della volontà può essere la via che passa attraverso due stadi:
    • 1) la giustizia: l'uomo riconosce negli altri uomini i suoi simili, oggettivazioni di un'unica volontà,e capisce che è folle cercare di sopraffarsi nella guerra di tutti contro tutti, in quanto tutti siamo vittime allo stesso modo;
    • 2) la seconda tappa è la carità, intesa come morale della compassione poiché «ogni amore puro e sincero è pietà». Con la carità l'uomo abbandona la propria sfera egoistica, che rafforza la volontà di vivere, e si rende conto che gli altri sono vittime dello stesso dolore universale. Se riusciamo ad andare oltre la nostra particolare vita, riusciamo a capire come in ogni vita, sia in quella del carnefice come in quella della vittima, ci sia il dolore come marchio fondamentale.
L'uomo provando compassione, nel senso originario del termine, cioè patendo assieme per il dolore degli altri, non solo prende coscienza del dolore ma lo sente e lo fa suo. La momentanea sconfitta della volontà di vivere si realizzerà poiché nella compassione è come se il singolo corpo del singolo uomo si dilatasse nel corpo degli altri uomini. La propria corporeità si assottiglia e la volontà di vivere è meno incisiva. Il dolore unendo gli uomini li accomuna e li conforta. Ma anche questa soluzione è parzialmente momentanea.
L'ascesi
La tappa decisiva è l'ascesi che permette di giungere alla cessazione di qualsiasi tipo di esistenza, voglia o godimento.
L'ascesi è «l'orrore dell'uomo per l'essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore»
L'ascesi viene scandita in tre punti:
    • Mortificazione in se e dei bisogni della vita sensibile;
    • Castità, che permette di non perpetuare il dolore, reprimendo l'impulso sessuale: oltre a ridurre il consenso consapevole alla volontà, la castità riduce la stessa oggettivazione della volontà noumenica nel mondo fenomenico;
    • Digiuno prolungato
Questa è la vera soluzione: rendersi trasparenti alla volontà che continuerà ad attraversarci ma non troverà più il corpo. Quindi vivere una non vita con l'estenuazione dell'organismo, raggiungendo la non-volontà, quindi il nulla.
La completa negazione della volontà comporta con sé la negazione del mondo come oggettivazione di essa.
In questa fase sono evidenti i riferimenti alla visione buddista e induista del Nirvana nel significato sia di 'estinzione'.
Se l'ascesi mistica conduceva a Dio quella schopenhaueriana conduce al nulla, è un misticismo ateo che rifiuta il mondo giungendo alla pura negatività.



La Scuola di Francoforte

La Scuola di Francoforte rappresenta un gruppo di studiosi che indirizzarono i loro sforzi intellettuali, intorno agli anni Trenta, verso i temi della filosofia e della sociologia. Il luogo attorno al quale svilupparono le loro ricerche fu l’Istituto di ricerche sociali, con sede appunto a Francoforte.
L’attività accademica e di ricerca fu momentaneamente interrotta dall’avvento in Germania del nazismo; molti collaboratori si trasferirono dapprima a Parigi, e nel corso della seconda guerra mondiale a New York. Dopo il 1945 molti studiosi fecero ritorno a Francoforte, mentre altri rimasero stabilmente negli Stati Uniti.
Il tema principale, oggetto di studio dell’Istituto, fu quello della cosiddetta “teoria critica della società”. Con questa espressione si indica l’elaborazione intellettuale tesa a criticare l’ideologia capitalistica, evidenziandone le falle interne e con l’intento di offrire modelli d’interpretazione alternativi.
Pur condividendo l’apparato teorico centrale, ognuno degli studiosi appartenenti alla Scuola di Francoforte puntò l’attenzione su aspetti diversi del problema. Ecco i principali esponenti e il loro campo di studi.
Max Horkheimer fu il fondatore dell’Istituto di ricerche sociali presso Francoforte, nonché principale esponente delle “teoria critica”. Con l’avvento del nazismo si trasferì prima a Parigi dove, con la collaborazione di Fromm e Marcuse, redasse gli Studi sull’autorità e la famiglia. In quest’opera sostenne che la famiglia è il luogo sociale in cui si crea e si rafforza il consenso dominante, frutto del capitalismo. Nel periodo statunitense scrisse un altro libro, Eclisse della ragione, in cui criticò la società dominata dalla tecnica. Le teorie elaborate da Horkheimer derivano in parte dalla conoscenza approfondita della teoria marxista e dall’uso della psicanalisi.
Theodor Adorno, come la maggior parte dei suoi colleghi, dovette abbandonare Francoforte in seguito alle politiche repressive naziste, per fuggire prima a Parigi e successivamente a New York. Assieme a Horkheimer scrisse il libro Dialettica dell’Illuminismo. Il pensiero sociologico che perseguì ruotò attorno a tre punti:
  • il concetto di razionalità strumentale, ovvero l’abuso degli ideali illuministi da parte del capitalismo, con lo scopo di aumentare il consenso e il controllo sull’uomo;
  • l’industria culturale, cioè la sistematica opera di omologazione e appiattimento delle diversità degli uomini, al fine creare bisogni sempre più uguali con l’aiuto indispensabile dei massmedia;
  • il mito della personalità autoritaria, riprendendo le idee di Horkheimer, che dà alla famiglia la maggiore responsabilità nella creazione del consenso.
Herbert Marcuse diede un forte impulso alle rivolte studentesche del ’68. Le sue idee muovevano da un’esigenza di affrancamento dall’ordine soffocante della società industriale. Pur partendo da idee marxiste, se ne distacca quasi immediatamente, non condividendo la classica contrapposizione tra borghesia e proletariato (quest’ultimo già ben inserito nella società dei consumi), ma vedendo negli studenti e nei soggetti emarginati gli elementi più eversivi. Tra le sue opere si ricordano Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione.
Con Erich Fromm viene interamente trattato il tema della società capitalistica, in rapporto alla personalità dell’individuo, grazie all’uso della psicanalisi. Secondo Fromm, la società attuale non riesce, per sua natura, a soddisfare i naturali bisogni dell’individuo, necessari per la sua realizzazione. Compito della psicanalisi è quello di aiutare il singolo a riconoscere le proprie esigenze e, attraverso la creatività, a realizzare se stesso. Alcune opere da lui scritte sono L’arte di amare, Dalla parte dell’uomo e Avere o essere.

Kierkegaard

 "Ci sono uomini il cui destino deve essere sacrificato per gli altri, in un modo o nell'altro, per esprimere un'idea, ed io con la mia croce particolare fui uno di questi."

IL PECCATO
Per Kierkegaard come per il cattolicesimo, il peccato è il rifiuto dell'amicizia con Dio che si è offerto all'uomo. Tutte le leggi a cui il popolo di Israele deve obbedire hanno lo scopo di assicurare la comunione con Dio. Il peccatore è colui che non ascolta la voce del Salvatore, che agisce contro l'alleanza. In Il Concetto di Angoscia Kierkegaard parla del peccato originale e qui la sua visione non è "né cattolica né protestante. Il peccato originale viene distinto dalla concupiscenza luterana e riferito alla decisione della libertà come tale considerata però nella sfera dell'immanenza del soggetto". Per i luterani l'immagine di Dio impressa nell'uomo e distrutta dal peccato rimane un tenue residuo, per noi cattolici nel peccatore c'è la perdita almeno parziale dei doni soprannaturali e la permanenza della natura, anche se ferita dal peccato. Per Lutero il peccato originale appartiene alla natura e comporta la perdita di tutte le forze e delle facoltà dell'uomo cioè la corruzione totale della natura, perché l'uomo cerca il fondamento in sé e non in Dio: così l'uomo corrotto dal peccato non è liberato né con il battesimo né con la fede. Per il filosofo l'individuo, come pensa San Tommaso, ha in sé il peccato originale (la pena del danno) e in potenziale la pena del senso (cioè i peccati personali). Ha così in effetti un rapporto soggettivo con la possibilità del peccato. Per Kierkegaard l'individuo è nello stato equivoco di un'innocenza colpevole (per generazione) e di una colpa innocente che si traduce nella malinconia dell'innocenza perduta e nella possibilità del peccato. Il peccato crea angoscia prima che la libertà dell'uomo possa o non compiere pene del senso. Per noi cattolici il peccato originale, come affronta il Concilio di Trento, porta alla perdita della santità e giustizia originale, ed è trasmesso per generazione (cioè da padre a figlio). Solo Cristo, ultimo Adamo, ci ha redento e tramite il battesimo ha permesso la nostra salvezza poiché la Grazia perdona il peccato originale. Per Kierkegaard invece, dal momento che non crede che il battesimo lavi il peccato originale, quest'ultimo è un residuo che di continuo vive dentro l'uomo, quasi divenendo una categoria ontologica della natura umana estranea alla volontà e alla libertà dell'individuo. La Malattia Mortale parla della disperazione e dell'angoscia per dimostrare che nascono dal peccato. "Nel cristianesimo il peccato è atto di libertà e il suo muoversi verso la propria perdizione: perché l'io si scandalizza perché non supera la possibilità dello scandalo". Con la venuta di Cristo l'uomo non si trova solo davanti a Dio, ma a Gesù uomo come noi. L'uomo-Dio dà scandalo esistenziale, è il nuovo Adamo che si è incarnato per strapparci dalla disperazione del peccato. Kierkegaard distingue così fra peccato originale e primo peccato. Le due nozioni non possono essere confuse per la difficoltà inerente alla conciliazione di possibilità ed attualità del peccato perché "ciò escluderebbe Adamo dalla storia, non potendosi di fronte ad essa giustificare, non solo per il presente, ma neppure per il passato, l'esistenza di un tale presupposto". Questa contraddizione si supera nella storia. Con la continuazione della specie, avviene poi la giustificazione individuale e insieme storica del peccato di Adamo; per Adamo, progenitore della stirpe umana, per generazione, il peccato vale per sé e per gli altri.

Bersong Tempo & Durata

La riflessione di Henry Bergson inizia a fine ottocento, la filosofia di questo periodo era orientata in reazione al positivismo.

Punto centrale del suo pensiero è il problema del tempo; da subito si oppone all'idea di tempo fisico-matematico, che si era affermata sia in campo scientifico, sia nella psicologia sperimentale. Scrive a questo proposito "Saggio sui dati immediati della coscienza" (1889) e "Durata e simultaneità" (1922); in quest'ultimo critica apertamente il concetto di tempo della teoria della relatività einsteniana.

Per Bergson l'idea di tempo 'scientifico', omogeneo e reversibile, quantitativo e calcolabile, che si limita a riprodurre l'idea dello spazio geometrico, deve essere rifiutata poiché totalmente inadeguata in quanto ciò che viene misurato non è l'intervallo di tempo in sé, ma solo una porzione di spazio. Questo porta al fatto che "se tutti i movimenti dell'universo si producessero due o tre volte più rapidamente non ci sarebbe nulla da modificare nelle nostre formule, né nei numeri che vi facciamo entrare".

Bergson arriva ad affermare che "l'intervallo di durata non conta dal punto di vista della fisica" e che essa riesce a cogliere solo la proiezione della traettoria spaziale e non il movimento in sé.

Ciò che registra la durata reale è la singola coscienza per la quale il tempo è inesteso e non divisibile, qualitativo ed eterogeneo, non misurabile ed irreversibile.

C'è un'inconciliabile scissione tra il mondo e la sua coscienza, come egli stesso scrive: "nel nostro io c'è successione senza esteriorità reciproca, fuori dell'io esteriorità reciproca senza successione".

La vera durata, però, viene messa in secondo piano ed occultata dalle esigenze dell'azione e della comunicazione sociale; inoltre la comune idea di spazio influenza a nostra insaputa anche la vita interiore; "proiettiamo il tempo nello spazio [...] e la successione prende per noi la forma di una linea continua", mentre solo a tratti riconosciamo la caratteristica peculiare della nostra coscienza: il flusso di coscienza.

Solo in questi momenti possiamo capire la verità su di essa e scoprire che la psicologia sperimentale e associativa sia solo un modo per dare un'apparente scientificità alla visione deformata del senso comune.

Per Bergson la psicologia e la filosofia possono divenire rigorose solo accettando il fatto che i fatti di coscienza sono solo qualità pura e non ammettono misurazione, cioè rinunciando all'idea positivistica di ridurre la realtà spirituale all'ordine dello spazio e del numero.


MarX & l'AlienazionE

Il concetto di Alienazione è strettamente legato al concetto di lavoro in Marx.
 
Ma partiamo un pò più da lontano. Marx desume il concetto di alienazione dal suo maestro Hegel. In Hegel l’alienazione è il procedimento che permette all’Autocoscienza di porre se stessa come oggetto. In questa maniera l’Autocoscienza si aliena da sè stessa per poi poter infine ritornare in se stessa.
Nell’analisi socio-economica dell’uomo di Marx soggetto dell’alienazione non è un concetto astratto e fittizio, secondo Marx, come l’autocoscienza hegeliana, bensì l’uomo nella sua condizione storico reale. L’uomo è il soggetto dell’alienazione nella sua vita quotidiana. Essendo il lavoro l’unica manifestazione della libertà umana l’alienazione si manifesta nell’attività lavorativa.

Secondo Marx nella società capitalista
“Non è l’operaio che adopera i mezzi di produzione ma sono i mezzi di produzione che adoperano l’operaio; invece di venire da lui consumati come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale; e il processo vitale del capitale consiste solo nel movimento di valore che valorizza se stesso.” (da “Il Capitale” 1867). Ovvero la proprietà privata aliena l’uomo da sé in quanto il fine del processo lavorativo non è più l’uomo ma il capitale; nella società capitalista l’uomo è passato dall’essere il fine all’essere il mezzo.
L’alienazione estrania l’uomo da se stesso allontanandolo dalla natura e dai rapporti con gli altri uomini. La società capitalista “separa dall’uomo il suo essere oggettivo quasi fosse un essere soltanto esteriore o materiale; e così non assume il contenuto dell’uomo come la vera realtà di esso.” (da “Critica della Filosofia hegeliana del Diritto” 1843).
L’alienazione è quindi una condizione storica dell’uomo nella società capitalista. Al contrario, nel comunismo la soppressione della proprietà privata eliminerà il carattere alienante del lavoro consentendo all’uomo di appropriarsi della sue essenza, superando il conflitto tra esistenza ed essenza, tra libertà e necessità.
Marx identifica anche un’alienazione religiosa. L’alienazione religiosa porta a vedere l’essenza umana come universale ed astratta, ovvero libera da ogni rapporto con l’oggetto stesso. L’alienazione religiosa porta a parlare dell’essenza dell’uomo rifiutandosi di prendere in oggetto l’essenza dell’uomo nei rapporti oggettivi che lo costituiscono.
L’alienazione religiosa non è solo tipica delle religioni, ma anche di tutte le filosofie idealistiche, come ad esempio la filosofia di Hegel. Risultato dell’alienazione religiosa è un mondo rovesciato in cui al posto dell’uomo reale vi è l’immagine ideale dell’essenza dell’uomo.
La religione è la teoria generale di questo mondo rovesciato, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honnuer spiritualistico,  il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il fondamento universale della consolazione e della giustificazione di esso.” E’ in questa chiave che Marx definisce la religione come l’oppio dei popoli.
L’alienazione religiosa porta anche un alienazione nello stato politico dove l’uomo “conduce una doppia vita, una vita in cielo e una in terra, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera natura sociale e la vita nella società civile nella quale egli agisce da uomo privato, considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso fino a ridursi in strumento e diventa il trastullo di forze a lui estranee.”
Dello stesso stampo è la critica che Marx porta ad Hegel. Hegel parlando dell’alienazione dell’autocoscienza parla di un’alienazione nell’alienazione. Ma è merito di Hegel l’aver concepito l’uomo come il risultato del proprio lavoro.


Feuerbach...Dio??

L'uomo produce Dio
 
Quella di Fueurbach è una forma radicale di umanesimo: il genere umano è l'unica entità esistente, ogni uomo ha in sé e nella propria coscienza gli infiniti attributi che durante la storia dell'umanità furono assegnati alle divinità.
Dunque, come sostiene Feuerbach, "il segreto della teologia è l'antropologia". L'antropologia è la scienza che studia l'uomo. Dunque se l'uomo è l'unica essenza esistente, l'altropologia è la chiave per spiegare il mondo. Se la teologia studia l'essere diverso dall'uomo in quanto Dio, l'essere eterno che sempre è esistito e ha generato ogni cosa, ora si tratta di capire, secondo Feuerbach, che le affermazioni della teologia e della religione sono fasulle, in quanto Dio è solamente la proiezione delle qualità presenti nella mente degli uomini.
In particolare ciò che attribuiamo a Dio, la sua eternità, la sua infinità, la sua perfezione, non sono altro che l'eternità, l'infinità e la perfezione che trovano dimora nella mente degli uomini sottoforma di sentimenti. Le qualità che rendono Dio qualcosa di diverso dagli uomini, in quanto sostanza perfettissima e immortale, in realtà sono lo specchio dei sentimenti di immortalità e di perfezione frutto della fantasia e della sensibilità proprie della mente umana.
Si tratta allora di portare alla luce il meccanismo alienato che porta alla scissione di Dio dall'uomo. Se l'uomo è l'unica entità esistente e Dio non è altro che un sentimento contenuto nella coscienza degli uomini, allora non può essere che Dio e l'uomo siano entità diverse, in realtà Dio e l'uomo albergano in un'identica essenza, l'unica, quella umana. Dio non è quindi più il creatore degli uomini, in quanto egli è un prodotto umano, il prodotto della coscienza degli uomini.
Feuerbach afferma che per il fatto che esista una scissione occorre che qualcosa sia unito, e questa unione è proprio l'identità di uomo e Dio, in quanto Dio è presente nell'uomo come sentimento del divino. Dunque il rivolgersi del sentimento a Dio non è altro che il sentimento stesso di Dio, la stessa ragione divina e la stessa ragione umana: Dio non esiste come entità a sé ma come sentimento presente nell'uomo, l'uomo produce Dio.

mercoledì 13 marzo 2013

Friedrich Wilhelm Nietzsche

Il Dio dell'Ebrezza e Quello dell'Armonia

Analizzando la tragedia greca,  Nietzsche individua due elementi : lo spirito dionisiaco e quello apollineo. Il primo può essere descritto come il sentimento  della fondamentale caoticità dell'essere, che domina lo spirito greco delle origini: è il trionfo di Dioniso, dio dell’ebrezza , dell’orgia  e della passione che trova la sua migliore espressione  nella musica e rappresenta l’unione dell’uomo con la natura. Il secondo corrisponde all’immagine tradizionale della classicità come serena e limpida armonia di forme, e infatti è associata alla figura di Apollo. Esso incarna la componente razionale del mondo greco, che per Nietzsche non è altro che una reazione “malata “e decadente all’irrazionalità dell’esistenza. Lo spirito apollineo trova la sua espressione più compiuta nelle arti plastiche. La vera arte può nascere soltanto dalla compresenza di questi due impulsi opposti, ma questo, nell’intera storia della nostra civiltà, è avvenuto soltanto nella Grecia presocratica. Nell’opposizione fra dionisiaco e apollineo, la filosofia si trova in tutta la parte della  forma, della misura  e della razionalità. Ma questa “parte“ è per Nietzsche quella della malattia e della morte. Lo spirito dionisiaco è infatti lo spirito della vita, mentre lo spirito apollineo nasce dalla paura dell’imprevedibilità del reale e del desiderio di fuga.  Secondo Nietzsche, a partire da Socrate, tutta la storia della nostra filosofia non è altro che una malattia; tutti i filosofi, hanno cercato ad ogni costo di illuminare la vita, ma cosi facendo l’hanno solo pietrificata, richiudendola in una gabbia di leggi. La celebrazione nietzschiana dello spirito tragico e dionisiaco coincide con una forma di celebrazione della vita, che non può venir definita nè “ pessimista “ né “ ottimista” in quanto tende a porsi al di là del pessimismo e dell’ottimismo.