Il
mondo come rappresentazione
La
rappresentazione ha due aspetti essenziali: il soggetto
rappresentante e l'oggetto
rappresentato. Entrambi esistono soltanto all'interno della
rappresentazione, come due lati o parti di essa, tanto che non può
esistere soggetto senza oggetto. L'oggetto esiste perché vi è un
soggetto che lo prende in considerazione nella rappresentazione e
così il soggetto prende coscienza di sé proprio tramite il suo
rapportarsi con gli oggetti.
Evidenti sono,
nell'impianto schopenhaueriano, le influenze e i termini kantiani
anche se parzialmente reinterpretati nel significato.
Il nuovo
significato della rappresentazione
La rappresentazione,
infatti, non è più intesa in senso kantiano, come l'oggetto di
qualsiasi atto conoscitivo, bensì per Schopenhauer è il risultato
del rapporto necessario tra soggetto e oggetto. Rapporto in cui
entrambi sono sullo stesso piano. Il soggetto non è prioritario
rispetto all'oggetto (come per l'idealismo che risolve l'oggetto nel
soggetto) né l'oggetto è prioritario rispetto al soggetto (come per
il realismo in cui è la realtà materiale che informa di sé la
soggettività).
In effetti la realtà
del mondo esterno non è stata risolta
- né dal
realismo che presume sia la realtà a produrre nel soggetto la
rappresentazione
- né
dall'idealismo che presume sia il soggetto a produrre le
rappresentazioni dell'oggetto.
Ambedue le correnti
filosofiche hanno errato: la prima attribuendo la relazione causale,
che è valida tra gli oggetti rappresentati, a due mondi del tutto
diversi tra loro per cui il materialista fa sorgere dalla materia lo
spirito, senza accorgersi di operare impropriamente con il principio
di causalità e l'idealista fa sorgere dallo spirito la materia
utilizzando la categoria di causalità che serve solo a ordinare i
fenomeni.
L'assenza di
priorità dell'elemento soggettivo fa sì che le forme a priori non
siano più il dato soggettivo che, secondo il pensiero kantiano, va a
sommarsi a quello empirico "costituendo" l'oggetto,bensì
che tali forme a priori siano già implicite, nella rappresentazione,
cioè in quell'atto assolutamente primo in cui concorrono parimenti
soggetto e oggetto.
Per
Schopenhauer come per Kant intuizioni pure, o forme a priori, sono lo
spazio, il tempo e la causalità. Spazio e tempo sono i principi di
individuazione della materia, la causalità invece, vista da
Schopenhauer, è l'essenza della materia, è essenzialmente attività
(tant'è che in tedesco “wirklichkeit”
che significa
"realtà" ha la stessa radice di “wirken”
che vuol dire "agire"). Siccome la materia non è altro che
l'agire nello spazio e nel tempo di oggetti su altri oggetti, la
materia verrà a coincidere con la causalità.
Per Schopenhauer poi
l'intelletto non è più la facoltà kantiana che opera sulle
rappresentazioni immediate (intuizioni) per formare i concetti
(rappresentazioni di rappresentazioni) tramite le categorie, ma
diviene la facoltà della causalità.
L'intelletto opera
intuitivamente come la sensibilità poiché la causalità non è più
una categoria (cioè una forma pura dell'intelletto) ma, come detto,
si fonda sulla rappresentazione immediata della materia in quanto
attività.
Il velo di Maya
Schopenhauer
riprende da Kant i concetti di fenomeno e noumeno. Il fenomeno è il
prodotto della nostra coscienza, esso è il mondo come ci appare,
mentre il noumeno è la cosa in se, fondamento ed essenza vera del
mondo. Il fenomeno materiale è dunque per Schopenhauer solo
parvenza, illusione, sogno: tra noi e la vera realtà è come se vi
fosse uno schermo che ce la fa vedere distorta e non come essa è
veramente: il velo di Maya di cui parla la filosofia indiana, alla
quale Schopenhauer spesso si rifà.
Il mondo dunque è
una propria rappresentazione, una propria illusione ottica.
Schopenhauer ritiene che la rappresentazione, cioè la realtà che ci
si para davanti, sia nient'altro che una fotocopia mal inchiostrata,
celante la vera realtà delle cose (da questa asserzione traspare
l'influenza dello studio di Platone).
Per poter giungere
alla realtà noumenica, quella vera, non si può quindi percorrere la
strada della conoscenza razionale, visto che è relegata alla sfera
della rappresentazione che in base al quadruplice principio di ragion
sufficiente ci mostrerà sempre un mondo totalmente determinato.
Il mondo come
volontà
Se fossimo solo
esseri conoscenti, rappresentanti, non potremmo mai scoprire la cosa
in sé. Ma noi siamo anche corpo, che per il soggetto conoscente non
è soltanto un oggetto come gli altri ma esso è
«anche qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno e che viene designato con il nome di volontà»
«anche qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno e che viene designato con il nome di volontà»
La rappresentazione
esterna non è solo quella rivolta alle cose esterne ma è anche
quella interiore per cui noi cerchiamo di cogliere la coscienza di
noi stessi, del nostro io che coincide con la rappresentazione del
nostro corpo. Con l'intelletto ciascuno di noi si guarda dal di
fuori: non conosce se stesso se non come una cosa tra le altre cose,
come un organismo corporeo tra gli altri corpi.
Ma
se ognuno di noi non fosse che un puro soggetto sensoriale, "una
testa d'angelo alata senza corpo", non potremo mai uscire dai
fenomeni, ma poiché siamo corpo non ci limitiamo a guardarci dal di
fuori ma ci sentiamo vivere, sentiamo che il corpo ci appartiene, che
è l'oggetto con cui l'io tende a identificarsi e che tutto questo
genera dolore.
«Ad eccezione
dell'uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza… La
meraviglia filosofica … è viceversa condizionata da un più
elevato sviluppo dell'intelligenza individuale: tale condizione però
non è certamente l'unica, ma è invece la cognizione della morte,
insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha
senza dubbio dato l'impulso più forte alla riflessione filosofica e
alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza
fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi
perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto
ciò sarebbe ovvio.»
L'intuizione di
Schopenhauer sta nel fatto di considerare l'uomo non solo come
soggetto conoscente ma anche come essere dotato di un corpo.
Tale corpo è sì per la nostra percezione, per il senso esterno, un oggetto tra gli oggetti ma è anche la sede di un senso interno che ci mostra immediatamente la nostra coincidenza con una forza, un impulso, che è la volontà.
Attraverso l'esperienza di se stessi come corpo l'uomo può giungere al noumeno, alla cosa in sé senza ricorrere alle forme a priori della conoscenza.
Tale corpo è sì per la nostra percezione, per il senso esterno, un oggetto tra gli oggetti ma è anche la sede di un senso interno che ci mostra immediatamente la nostra coincidenza con una forza, un impulso, che è la volontà.
Attraverso l'esperienza di se stessi come corpo l'uomo può giungere al noumeno, alla cosa in sé senza ricorrere alle forme a priori della conoscenza.
La volontà di
vivere
Proprio attraverso
il corpo scopriamo che la realtà delle cose ci concerne, siamo nel
mondo come una sua parte; difatti vogliamo, desideriamo certe cose e
certe altre le evitiamo, rifuggiamo il dolore e ricerchiamo il
piacere. Proprio questo ci permette di squarciare il velo del
fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci in noi
stessi, scopriamo che la radice noumenica del nostro io è la
volontà: noi siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci
spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire.
La materialità
dell'io, la sua attività («l'azione del corpo non è che l'atto
della volontà oggettivato») ci mostra due facce diverse:
- una esteriore,
quella che si offre alla rappresentazione per cui esso appare corpo
- una interiore
per cui esso si svela come tendenza, sforzo, brama di vivere,
volontà di vivere, volontà che s'identifica con quella realtà
extra fenomenica di cui parlava Kant che però egli raggiungeva
attraverso la volontà morale con cui l'io conosceva se stesso come
libertà spirituale.
La musica
Essenza tangibile
della volontà di vivere è la musica che attraverso semplici suoni
esprime la vera filosofia del mondo:
«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell'intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l'immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettività: perciò l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l'ombra, mentre essa esprime l'essenza. La musica esprime, con un linguaggio universale, l'intima essenza, in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l'esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient'altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell'essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia.»
«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell'intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l'immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettività: perciò l'effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l'ombra, mentre essa esprime l'essenza. La musica esprime, con un linguaggio universale, l'intima essenza, in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l'esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient'altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell'essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia.»
L'esistenza di Dio
La tradizione
cristiano-giudica trova un senso alla nostra vita postulando
l'esistenza di un Dio, ma secondo Schopenhauer, che Nietzsche definì
«il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi tedeschi abbiamo
avuto», questo Dio si dovrebbe riferire a un essere conoscente che
abbia voluto creare il mondo, cioè un essere che ha elargito agli
uomini come un dono un tale miserevole stato di cose.
La prova
fisico-teologica kantiana dell'esistenza di un Dio architetto di un
universo ordinato, apprezzata come la più intuitiva dal senso
comune, viene invece contestata da Schopenhauer che la giudica non
diversa dalla prova "keraunologica", che si basa sul
terrore del fulmine (keraunos
in greco), per la quale gli ignoranti credevano nell'esistenza di
Zeus.
Un mondo così
pervaso dal male potrebbe portare finalisticamente a credere
nell'esistenza di un Dio concependolo come un Essere supremamente
malvagio.
E se si obietta che la perfezione degli organismi viventi necessariamente deve essere riferita a un Dio perfetto creatore, Schopenhauer risponde che l'idea finalistica della perfezione appartiene all'intelletto, ma la natura di per sé non possiede il concetto di fine, essa è l'oggettivazione della volontà cieca e irrazionale: sono gli uomini che cercano di dare un senso alla loro vita finalizzandola a un essere superiore che non può esistere.
E se si obietta che la perfezione degli organismi viventi necessariamente deve essere riferita a un Dio perfetto creatore, Schopenhauer risponde che l'idea finalistica della perfezione appartiene all'intelletto, ma la natura di per sé non possiede il concetto di fine, essa è l'oggettivazione della volontà cieca e irrazionale: sono gli uomini che cercano di dare un senso alla loro vita finalizzandola a un essere superiore che non può esistere.
Il piacere come
assenza di dolore e la noia
La volontà di
vivere produce incessantemente nell'uomo bisogni che richiedono
soddisfazione: desideri, che
sono dunque reazione ad un senso di mancanza, di sofferenza.
Difficilmente però
tutti i desideri si realizzano, e la mancata realizzazione di alcuni
di essi causa un'ulteriore, più acuta sofferenza. Ma, anche quando
un desiderio viene soddisfatto, il piacere che ne deriva risulta
essere solo di natura negativa, soltanto, cioè, un
alleviamento della sofferenza provocata da quel prepotente bisogno
iniziale; bisogno che subito riappare in altra forma, pronto a
pungolare con nuovi desideri l'affannata coscienza umana.
E quando pure l'uomo non viva nel bisogno fisico e nella miseria, quando nessun effimero desiderio (invidia, vanità, onore, vendetta) gli riempia i giorni e le ore, subito la noia, la più orrenda e più angosciosa di tutte le sofferenze, si abbatte su di lui:
«Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno.»
E quando pure l'uomo non viva nel bisogno fisico e nella miseria, quando nessun effimero desiderio (invidia, vanità, onore, vendetta) gli riempia i giorni e le ore, subito la noia, la più orrenda e più angosciosa di tutte le sofferenze, si abbatte su di lui:
«Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno.»
«La vita umana è
come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con
intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.»
La vita umana è quindi un alternarsi di dolore e di noia, passando per la momentanea sensazione meramente negativa del piacere.
La vita umana è quindi un alternarsi di dolore e di noia, passando per la momentanea sensazione meramente negativa del piacere.
«L'annoiato lungi
dal non volere, vuole» e rimpiange la vita intensamente vissuta
nella tensione. La noia è la volontà che vuole se stessa com'era.
Una volontà più sofisticata ma non meno tenace e sfibrante.
Il dolore è la
realtà prima, e la felicità non è che la negazione di questo
positivo ontologico e antecedente cronologico, per cui la negatività
della felicità sta nel fatto che sarà sempre liberazione da un
desiderio, un dolore, un bisogno (sempre deficiente rispetto
all'incolmabilià del desiderio).
L'illusione
Oltre alla noia
un'altra figura che mantiene in movimento la volontà è l'illusione.
La conoscenza nella forma della fantasia, dipingendo l'oggetto del
volere come in grado di estinguere il bisogno, acutizza il desiderio,
con quest'illusione. Così la conoscenza appare al servizio della
volontà e l'illusione congenita al volere. Anzi è la volontà che
si fa conoscenza per farsi motivare.
Il conoscere è sempre subordinato alla volontà e ogni conoscenza è interessata.
Il conoscere è sempre subordinato alla volontà e ogni conoscenza è interessata.
Il conoscere è
volontà di conoscere: la volontà vuole conoscere e per questo si dà
la conoscenza per la propria conservazione e potenziamento.
Il pessimismo
La volontà di
vivere è causa di sofferenza per tutti gli esseri conoscenti (in
quanto essendo volontà, pretende in continuazione, senza essere mai
soddisfatta), e in special modo per l'uomo, la cui maggiore
razionalità rende infinitamente più consapevole di sé e quindi più
dolorosa la sua vita rispetto a quella degli altri animali (infatti a
differenza di essi l'uomo sa di dover morire, e si rappresenta anche
dolori passati ed ansie future).
Il suicidio
Inizialmente,
Schopenhauer come mezzo di liberazione prende in esame il suicidio.
In posizione anti-storica, il filosofo condanna questa pratica,
perché il suicidio non è una negazione della volontà di vivere ma
piuttosto una sua affermazione, poiché il suicida vuole porre fine
alla propria vita, nega, ma afferma la volontà: negando la vita
com'è vorrebbe una vita migliore.
Inoltre, attraverso
il suicidio viene soppressa unicamente la manifestazione fenomenica,
il corpo, l'oggetto della volontà, mentre come cosa in se essa
continuerà ad esistere.
Il filosofo propone
allora un iter salvifico,
alla fine del quale, l'uomo si può liberare della voluntas,
causa di dolore, e giungere alla noluntas.
Le tappe per sfuggire alla volontà di vivere sono: l'arte, l'etica,
l'ascesi.
Arte
La noluntas può
essere momentaneamente raggiunta con l'arte che non è sottoposta al
principio di ragione e ai rapporti causali necessitanti che sono alla
base della conoscenza, cioè essa permette la libera visione
dell'idea propria del genio «che ha l'attitudine a fare astrazione
dalle cose particolari, la cui essenza si riconosce nelle relazioni e
a riconoscere le idee: infine a porre se stesso quale correlato delle
idee: in altre parole, ad abbandonare la natura d'individuo, per
sollevarsi a soggetto puro della conoscenza.»
Nell'esperienza
estetica l'artista della vera opera d'arte riesce a svincolare
l'oggetto dalle condizioni che lo individualizzano (spazio, tempo e
causalità) contemplandolo come universale. Sia nella ispirazione
artistica che nello spettatore dell'opera d'arte infatti i soggetti
dimenticano se stessi, la propria corporeità di modo che la volontà
di vivere ci attraversi senza incidere sulla materialità.
«il piacere
estetico consiste in gran parte nel fatto che, immergendoci nello
stato di contemplazione pura, noi ci liberiamo per un istante da ogni
desiderio e preoccupazione; ci spogliamo in certo qual modo di noi
stessi, non siamo più l'individuo che pone l'intelligenza a servizio
del volere, il soggetto correlativo alla sua cosa particolare, per la
quale tutti gli oggetti divengono moti di volizione, bensì,
purificati da ogni volontà, siamo il soggetto eterno della
conoscenza, correlato all'Idea.»
Il fruitore
dell'opera d'arte deve riuscire a negare la sua volontà diventando
puro contemplatore disinteressato. Una volta terminata la breve
visione artistica si ricade però nella corporeità preda della
volontà di vivere.
L'etica
Nel quarto libro del
Mondo si ripropone il problema di come l'uomo possa raggiungere la
noluntas.
L'arte costituisce
infatti solo il primo gradino del processo di negazione della
volontà, resta infatti qualcosa di temporaneo e non accessibile a
tutti.
L'uomo come fenomeno
non è libero ma schiavo del rapporto di causalità e come noumeno è
soggetto alla volontà di vivere. Egli deve prendere coscienza di
questa natura negativa della realtà del mondo, della storia, della
natura in cui è immerso.
Una più duratura
liberazione dai mali della volontà può essere la via che passa
attraverso due stadi:
- 1) la
giustizia: l'uomo riconosce negli altri uomini i suoi simili,
oggettivazioni di un'unica volontà,e capisce che è folle cercare
di sopraffarsi nella guerra di tutti contro tutti, in quanto tutti
siamo vittime allo stesso modo;
- 2) la seconda
tappa è la carità, intesa come morale
della compassione poiché «ogni amore puro e sincero è
pietà». Con la carità l'uomo abbandona la propria sfera
egoistica, che rafforza la volontà di vivere, e si rende conto che
gli altri sono vittime dello stesso dolore universale. Se riusciamo
ad andare oltre la nostra particolare vita, riusciamo a capire come
in ogni vita, sia in quella del carnefice come in quella della
vittima, ci sia il dolore come marchio fondamentale.
L'uomo provando
compassione, nel senso originario del termine, cioè patendo assieme
per il dolore degli altri, non solo prende coscienza del dolore ma lo
sente e lo fa suo. La momentanea sconfitta della volontà di vivere
si realizzerà poiché nella compassione è come se il singolo corpo
del singolo uomo si dilatasse nel corpo degli altri uomini. La
propria corporeità si assottiglia e la volontà di vivere è meno
incisiva. Il dolore unendo gli uomini li accomuna e li conforta. Ma
anche questa soluzione è parzialmente momentanea.
L'ascesi
La tappa decisiva è
l'ascesi che permette di giungere alla cessazione di qualsiasi tipo
di esistenza, voglia o godimento.
L'ascesi è
«l'orrore dell'uomo per l'essere di cui è espressione il suo
proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e
l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore»
L'ascesi viene
scandita in tre punti:
- Mortificazione
in se e dei bisogni della vita sensibile;
- Castità, che
permette di non perpetuare il dolore, reprimendo l'impulso
sessuale: oltre a ridurre il consenso consapevole alla volontà, la
castità riduce la stessa oggettivazione della volontà noumenica
nel mondo fenomenico;
- Digiuno
prolungato
Questa è la vera
soluzione: rendersi trasparenti alla volontà che continuerà ad
attraversarci ma non troverà più il corpo. Quindi vivere una non
vita con l'estenuazione dell'organismo, raggiungendo la non-volontà,
quindi il nulla.
La completa
negazione della volontà comporta con sé la negazione del mondo come
oggettivazione di essa.
In questa fase sono
evidenti i riferimenti alla visione buddista e induista del Nirvana
nel significato sia di 'estinzione'.
Se l'ascesi mistica
conduceva a Dio quella schopenhaueriana conduce al nulla, è un
misticismo ateo che rifiuta il mondo giungendo alla pura negatività.